Dopo la composizione di Un’altra inondazione e dell’episodio di don Marco, ne I galantuomini il tema dell’eruzione dell’Etna fa ancora la sua comparsa nella produzione di Giovanni Verga nel 1886, dando vita alla novella L’agonia d’un villaggio. Apparsa prima sulle pagine di un periodico e poi, secondo prassi, inclusa in una silloge, l’anno successivo.
L’attenzione di un Verga alla ricerca di spunti proficui narrativi viene catturata dall’attività del vulcano Etna più alto d’Europa. Si tratta infatti di un’eruzione appena verificatasi, che ha conosciuto momenti particolarmente drammatici facendo temere per la morte di Nicolosi, abbandonata da suoi abitanti, che si affidavano alla potenza della fede e sfilano per più volte in processione, sostenuti spiritualmente dall’arcivescovo di Catania, Giuseppe Dusmet.
Le lettere di Verga
La lettera post-factum di Verga del 14 giugno contiene queste imbarazzanti parole: “Speravo vederti giungere colla macchina per (andare) a Nicolosi, ma invece te ne stai a afre il Sindaco. Sai che son minacciato di far dare Cavalleria in spettacolo straordinario a beneficio dei danneggiati dell’Etna. E pensare che il più danneggiato sono io”.
Le affermazioni sono forti e il gioco di parole, secondo il quale l’Etna ha danneggiato più lui dei nicolositi, è tutt’altro che felice. Il sospetto verghiano appare più netto nella successiva lettera del 20 giugno. Nella lettera in occasione dello spettacolo, che si terrà a Catania il primo luglio, chiede al Capuana “dei capi di vestiario che dovrebbero servire per la rappresentazione prossima, ahimè! di Cavalleria rusticana a beneficio, ahimè bis, dei non danneggiati dell’Etna”.
In questi passi ritroviamo molto dell’animo del nostro scrittore, il che li rende preziosi e sottolinea l’importanza dell’opera di cui ci accingiamo a parlare. Si pensa che una prima bozza de “l’Agonia d’un villaggio” sia stata scritta durante la sua permanenza di luglio nella città di Messina. Pubblicata inizialmente nel periodico “L’imparziale” precisamente al numero del 12 di agosto. Tale novella è stata poi ritoccata, in accordo con la casa editrice Treves, per essere pubblicata all’interno della riedizione di Vagabondaggio.
Verga “Agonia d’un villaggio”
«Bollettino dell’eruzione! Il fuoco a Nicolosi!» La folla accorreva dai dintorni, a piedi, a cavallo, in carrozza, come poteva. Lungo la salita, fra il verde delle vigne, un denso polverone disegnava il zig-zag della strada. Ad ogni passo s’incontravano carri che scendevano dal villaggio minacciato, carichi di masserizie, di derrate, di legnami… []
E colla roba, sui carri, a piedi, uomini e donne taciturni, recandosi in collo dei bambini sonnolenti, coi volti accesi dalla caldura e dall’ambascia. Pei casolari, nelle borgate, lungo la via, gli abitanti affacciati per vedere, colle mani sul ventre; qualche vecchierella che attaccava un’immagine miracolosa allo stipite della porta o al cancello dell’orto; e sulle porte spalancate delle chiesuole, la statua del santo patrono, luccicante sotto il baldacchino, come un fantasma atterrito, colle candele spente, e i fiori di carta dinanzi. []
Si camminava su di una sabbia nera, fra due file di case smantellate, irregolari, cogli usci e le finestre divelte. La gente ancora affaccendata a portare via roba. Dal balcone di una casa nuova calavano gridando – Largo! – un armadio monumentale. [] qua e là, sulle porte senza uscio, vedevasi qualche povero diavolo che voltava le spalle alle stanzucce nude, aspettando colle mani in mano e il viso lungo, in silenzio, come nell’anticamera di un moribondo. []
Lassù dal campanile, sul chiacchierìo, sul frastuono, sui boati del vulcano, la campana che sonava a processione, senza cessare un istante.
Al Nord, verso l’Etna, lo stradone si allungava in mezzo a due file di ginestre arboree, formicolante di curiosi che andavano a vedere, ridendo, schiamazzando, chiamandosi da lontano, e gli strilli soffocati delle signore barcollanti sul basto malfermo delle mule, e il vociare di quelli che vendevano gasosa, birra, uova e limoni, sotto le baracche improvvisate. []
Misericordia! Misericordia!
A due passi le ginestre in fiore si agitavano ancora alla brezza della sera; delle signore si stringevano al braccio del loro compagno di viaggio, con un fremito delizioso; altri si sbandavano per le vigne, lungo la linea della corrente minacciosa, scavalcando muricciuoli, saltando fossatelli, le donne colle sottane in mano, con un ondeggiare infinito di veli e d’ombrellini, mentre il crepuscolo moriva nell’occidente, e la marina in fondo dileguava lontana, nel tempo istesso che l’immensa fiumana di lava sembrava accendersi nell’orizzonte tetro.
Dal paesetto perduto nell’oscurità giungeva sempre il suono delle campane, e un mormorìo confuso e lamentevole, un formicolìo di lumi che si avvicinavano, quasi delle lucciole in viaggio. Poi, dalle tenebre della via, sbucò una processione strana, uomini e donne scalzi, picchiandosi il petto, salmodiando sottovoce, con una nota insistente e lamentosa della quale non si sentiva altro che: – Misericordia! misericordia! []